26 febbraio 2024

Federico Sacchi, Narratore di musica

Federico Sacchi ha costruito una carriera sulla musica e sulle parole migliori per raccontarla. Al Salotto di Mao scopriamo i diversi lati del suo lavoro artistico.

In Italia sei l’unico musicteller di professione, la tua abilità consiste principalmente nel restituire valore alla musica attraverso il racconto. Ti sei specializzato su alcuni generi e gruppi musicali oppure il tuo interesse si rivolge genericamente all’universo musicale?

Per gusto personale amo molto la musica tra gli anni ’60 e gli ‘80, ma non mi sono mai posto limiti nella scelta degli artist*. Ora che me lo chiedi però mi rendo conto che molte delle storie che ho raccontato sono legate all’universo della “black music”, non solo afroamericana. Probabilmente perché sono storie di riscatto sociale straordinarie al limite dell’incredibile (due nomi su tutti: Terry Callier e Bill Withers), spesso strettamente legate al contesto socio-culturale in cui hanno operato.  Raccontando quelle storie posso fotografare un momento storico e andare oltre la musica. Negli ultimi anni mi sto riavvicinando agli artist* italiani, scoprendo anche qui molte storie pazzesche.

Poco più di dieci anni fa hai mollato tutto e hai scelto di realizzare il tuo sogno. Come sta andando questo tuo nuovo viaggio?

Mi trovo in una fase cruciale del viaggio, quella del consolidamento. Il 2023 è stato l’anno delle “prime volte”. in ordine cronologico: una maratona di spettacoli, il sound design del red carpet per la festa del cinema di Roma, una masterclass di tre giorni sul mio lavoro per l’Università degli Studi di Salerno e l’applicazione del musictelling all’area corporate. I feedback sono stati molto positivi e questo mi incoraggia a proseguire, affiancando al teatro e alle performance anche queste attività.

Hai lavorato in passato come responsabile di un intero dipartimento dedicato alla musica nella sede della Fnac a Torino. Negli anni Duemila. In evidenza tra gli espositori dei cd spesso c’erano gli album che consigliavi ai clienti, molte novità e spesso dischi sconosciuti. Che cosa ti ha trasmesso quella esperienza a contatto con la musica e con chi la ascolta?

Durante la mia quindicennale carriera di “mercante di dischi” ho incontrato migliaia di persone di ogni estrazione sociale e culturale, e ogni giorno arrivava qualcuno che mi faceva domande su un artist* di cui non sapevo nulla. Questo mi ha dato l’opportunità di allargare i miei orizzonti ed entrare in contatto con interi universi musicali di cui ignoravo l’esistenza. Sono stati anni di scambi intensi che mi hanno fatto crescere tantissimo a livello personale e professionale. Alcune delle persone che ho incontrato in quegli anni oggi sono i miei più cari amici e compagni di concerti.

Il format dell’esperienza di ascolto che hai inventato che cosa offre di più di una normale listening session?

L’esperienza d’ascolto è una forma di divulgazione spettacolarizzata, una sorta di documentario dal vivo che fonde storytelling, musica, teatro e video. L’ascolto della musica è una delle componenti dell’esperienza, un ascolto accompagnato dalla traduzione di tutti i testi delle canzoni che vengono proiettati sullo schermo. Parafrasando un famoso spot, se non capisci i testi godi solo a metà. Poi c’è tutta la componente teatrale e il modo in cui racconto la storia degli artisti, documentato e scrupoloso nelle fonti, ma anche leggero e divertente. Il mio obiettivo è che ogni persona del pubblico, indipendentemente dalla sua conoscenza degli argomenti trattati, torni a casa con una bella storia e sia stimolato a fare un suo viaggio nella musica. Quando ci riesco è una grande gioia.

Tra gli artisti che adori c’è sicuramente Stevie Wonder, uno dei più grandi geni musicali del XX secolo. Che cosa gli vorresti far raccontare se avessi l’occasione di intervistarlo?

Lo bombarderei di domande sulle session degli album che ha pubblicato tra il 1972 e il 1974, registrati sotto la guida dei produttori Malcolm Cecil e Robert Margouleff. Quattro capolavori in cui Stevie, Malcolm e Robert abbattono le barriere esistenti tra il pubblico del rock e quello della black music e creano le condizioni per la diffusione dei sintetizzatori nella musica pop. Senza questi tre geni visionari e i Kraftwerk il 70% della musica che abbiamo ascoltato negli ultimi 40 anni semplicemente non esisterebbe. Ho dedicato un intero episodio della trilogia su Stevie Wonder a questo periodo della sua carriera, ma ho ancora un sacco di domande senza risposta.

 I podcast sono l’ultima frontiera dello storytelling. Che progetti hai in questo ambito?

In realtà ho già pubblicato una serie di podcast nel 2021 a cui sono molto legato e mi ha permesso di sperimentare. Si chiama “disopodcast – a gentile richiesta” quattro episodi in cui raccontiamo la storia di Vic Chesnutt, i Denovo, Etta Scollo e Gianluca Grignani partendo dai ricordi personali di persone comuni che hanno deciso di condividere con noi la loro esperienza. Negli ultimi due anni mi sono dedicato anche a podcast extramusicali, realizzando insieme al dramaturg Stefano Pandolfini due stagioni di “Morena Stories”. Le mie esperienze d’ascolto si prestano a un adattamento podcast, ci stiamo lavorando. C’è anche un nuovo progetto insieme a un grosso nome della musica torinese che stimo moltissimo, ma ne parleremo al momento opportuno.